Siamo
sempre in Arizona, siamo sempre nei dintorni del Grand Canyon, siamo sempre su
quell’enorme plateau intorno ai 2.000 m di quota, lavorato e scavato dal fiume
Colorado e dai suoi affluenti. Ogni escursione fatta qui comincia
scendendo, per ritornare alla partenza
si risale, esattamente all’opposto di quello che avviene quando si fanno le
escursioni in montagna. Questo non è trascurabile: affrontare una salita
durante il ritorno, quando si è già stanchi, pesa molto di più.
Una
settantina di chilometri in linea d’aria ad ovest del South Rim e del North
Rim, c’è un villaggio indiano navajo di circa 400 persone isolato e
difficilissimo da raggiungere, tanto che la posta viene ancora portata a dorso
di un mulo o di cavallo con diverse ore di cammino e solo per le urgenze viene
utilizzato l’elicottero.
L’importanza
di questo villaggio è la presenza di alcune meravigliose cascate dal color smeraldo e da tante piscine naturali dove poter fare il bagno in mezzo ad
un vero e proprio paradiso terrestre.
Per
limitare l’invasione dei turisti è stato posto il limite di 300 presenze al
giorno con prenotazioni che si aprono a febbraio e che si esauriscono
velocemente, malgrado il costo del permesso sia elevato (66$ a persona) e che
sia obbligatorio almeno un pernottamento altrettanto dispendioso: noi abbiamo
pagato 93$ a testa compreso del permesso e di un posto dove piantare la tenda.
Da
febbraio di quest’anno è obbligatorio il pernottamento e la prenotazione e sono
state vietate le escursioni in giornata, con la giustificazione che percorrere a piedi i 16 km di andata (12 km
fino al villaggio più altri 4 fino alla cascata superiore e al campeggio) più
16 km di ritorno, nella stessa giornata e sotto il sole a picco, sia troppo per
chiunque.
Noi
non sapevamo di tutti questi cambiamenti e ci siamo avventurati per farlo forse
in giornata, come aveva fatto il nostro amico Luca anni fa, pensando che il biglietto
d’ingesso si potesse prendere tranquillamente all’ingresso del paese di Supai,
una volta arrivati. Ci siamo portati comunque la tenda, nel caso avessimo
cambiato idea.
Già
arrivare in auto al parcheggio di Havasupai Hill, dove comincia l’escursione a
piedi, è un’impresa: bisogna guidare due ore da Flagsaff verso ovest e poi fare
una deviazione di 100 km che sembra condurre solo in quel parcheggio. Per poter
cominciare l’escursione al mattino presto ci siamo arrivati di sera, partendo
dopo cena da Flagstaff, avremmo dormito in auto una volta arrivati al
parcheggio come fanno tanti. Non avevamo considerato il fatto che gli ultimi
100 km di quella strada fossero sostanzialmente in mezzo al bosco con il
rischio di stendere qualche cervo oppure una volpe o qualche gallo cedrone. Dopo
aver visto il primo cervo dalla stazza pari a quella di un toro e con un palco
di corna simili ai rami di una sequoia, abbiamo deciso di proseguire molto
piano…arrivando al parcheggio alle due di notte e senza mai incontrare
nessun’altra auto per tutti i 100 km! Per due ore abbiamo visto solo alberi,
animali e cielo. Il parcheggio era pieno, abbiamo fortunatamente trovato un
posto.
Dopo
aver dormito un po' in auto partiamo alle 6.30 del mattino con tanto di tenda e
6 litri di acqua, non sapendo che sia al paese di Supai, che nel campeggio, fosse
disponibile dell’acqua potabile gratuita.
L’inizio
del sentiero è una discesa ripida, si parte dai 1500 metri di altitudine per
arrivare ai 700 metri di Supai. Altri turisti partono con noi e molti altri li
incrociamo mentre stanno tornando dal villaggio: chi è partito a mezzanotte dal
campeggio camminando tutta la notte con la pila, chi alle quattro di mattina dai
lodge di Supai, chi un’ora prima, chi dopo, ma tutti indistintamente distrutti.
Dopo
la ripida discesa dei primi due km si comincia a camminar dentro un canyon di
indubbia bellezza, accompagnati dai primi raggi del sole. Per strada ancora
turisti che tornano e carovane di cavalli che fanno la spola con le provviste
dal parcheggio al paese. Ad un certo punto incrociamo un indiano della riserva
che ci chiede se abbiamo il permesso: noi cadiamo dalle nuvole, chiedendoci
anche chi fosse questo tipo che non manifestava nessuna ufficialità. Ci spiega
che il trekking non si può fare in giornata e non si può arrivare al villaggio
senza prenotazione, che deve essere fatta necessariamente via mail o telefono.
L’indiano era categorico e voleva che assolutamente tornassimo indietro. Ad un
certo punto estrae una ricetrasmittente e comunica con qualcuno parlando di noi
e del fatto che ormai siamo a metà percorso. Miracolosamente ci dice che c’è un
posto tenda per la modica spesa di 93,5 dollari a testa. Sembra che si siano
liberati dei posti perché qualcuno ha disdetto la prenotazione. Siamo salvi!
Arriviamo
al villaggio in 5 ore, percorrendo 12 km su e giù per i sassi. Distrutti ma
contenti. Al punto di controllo del villaggio paghiamo il dovuto e ci mettono
una fascetta colorata al polso, tipo quella dei turisti nei resort.
Il
villaggio, piccolo e polveroso, è un’oasi in mezzo al deserto, con dei cavalli
nei recinti e un rumore assordante di elicotteri che fanno la spola tra il
parcheggio dove eravamo e il villaggio, portando turisti, e materiali vari
quasi sempre appesi ad un enorme cesto con un lungo filo.
Nel
villaggio si trovano i lodge (casette in legno) ben più costosi, mentre il
campeggio è 4 km più in alto, nei pressi dell’ultima cascata.
Le
cascate sono veramente una meraviglia, il color azzurro dell’acqua risalta tra
il verde dell’oasi e il rosso dell’arenaria. Le prime cascate sono più basse e fatte
di larghe pozze, mentre le ultime due sono alte come le nostre cascate delle Marmore.
Alla base formano veri e propri laghetti dove è possibile fare il bagno. Bello,
proprio bello.
Facciamo
il bagno anche noi e prima del buio piantiamo la tenda in riva il torrente.
Questo campeggio, come quasi tutti i campeggi americani, ha un tavolo per ogni
piazzola e i servizi igienici in comune, ma non c’è modo per lavarsi. Ognuno si
arrangia come può. Le immondizie devono esser sempre portate a casa, non si devono,
giustamente, lasciare qui.
Alle
8, appena fa buio, siamo a letto. Ci alziamo alle due di notte e smontiamo la
tenda con l’aiuto della pila. Iniziamo a scendere alle 2.30. Per capire
quale fosse il sentiero giusto abbiamo
sempre guardato l’impronta degli zoccoli dei cavalli sulla sabbia, esattamente
come nei film.
Ogni
tanto alzavamo gli occhi al cielo, sempre pieno di stelle, come ormai siamo
abituati a vedere qui. Vediamo Cassiopea e poco davanti distinguiamo ad occhio
nudo la Galassia di Andromeda, l’unico oggetto celeste all’infuori della nostra
galassia osservabile ad occhio nudo. Ma per poterla osservare ci vogliono
appunto cieli limpidi come questo. Con il buio talvolta perdiamo il sentiero,
ma poi lo ritroviamo subito. Arriviamo al parcheggio dell’auto dopo le 9 di
mattina, impiegando quasi sette ore per percorrere i 16 km dal campeggio
all’auto, pause comprese. La salita degli ultimi due km è decisamente
micidiale, non finisce mai.
In
alto incrociamo vari turisti che stanno partendo per il villaggio, tra cui due
ragazze italiane che hanno viaggiato tutta la notte da Page per tentare di
avere il permesso direttamente qui, visto che al telefono non rispondeva
nessuno. Lo stesso tipo indiano che ci aveva trovato un posto tenda la mattina
prima, con loro è stato irremovibile, malgrado la nostra intercessione: senza
prenotazione non si entra. Le ragazze purtroppo sono tornate indietro.
C’è
andata male con la “The Wave”, ma qui siamo stati decisamente fortunati, grazie
al nostro burbero “amico” indiano a cavallo.
La cascata di Havasu |
La cascata Lower Navajo |
La parte superiore della Lower Navaio |
La cascata Mooney |
Inizia il sentiero in mezzo al canyon |
L'indiano al posto di controllo |
La deviazione per il villlagio |
Il rifornimento al villaggio con i cavalli |
Il rifornimento avviene talvolata con l'elicottero |
La tenda per la notte, vicino al torrente |
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